
Che tipo di formazione Artistica hai avuto? (Accademia, Autodidatta, ecc)
La mia formazione artistica è un intreccio di studio accademico, ricerca personale e una buona dose di curiosità instancabile. Ho studiato Scenografia all’Accademia di Belle Arti di Roma, dove ho imparato che ogni spazio può diventare racconto, e ogni oggetto — se ben collocato — può suggerire emozioni più di mille parole.
Lì ho affinato lo sguardo, la tecnica, la disciplina.
Ma l’arte non si lascia imbrigliare troppo facilmente: così, fuori dalle aule, ho continuato a esplorare da autodidatta, tra libri, atelier, viaggi e dialoghi con artisti di ogni genere. Ho imparato a costruire mondi, ma anche a decostruirli, perché la scenografia insegna proprio questo: dare forma all’invisibile e poi lasciarlo svanire con grazia.
In fondo, potrei definirmi accademico per formazione, autodidatta per vocazione, pittore e scenografo per visione. Con un pizzico di ironia, direi che ho studiato per rendere credibile l’illusione — e continuo a farlo con serietà.
Quale dovrebbe essere, secondo te, il ruolo dell’artista nella società odierna?
In un’epoca segnata da guerre, genocidi, crisi ambientali e una crescente anestesia emotiva, l’artista non può limitarsi a decorare il mondo: deve interrogarlo, scuoterlo, abitarlo con coscienza.
Il rispetto per la vita sembra diventato un concetto negoziabile, e proprio per questo l’Arte deve tornare a essere “un atto di resistenza poetica”.
L’artista oggi dovrebbe essere un testimone lucido e visionario, capace di trasformare il dolore in forma, la rabbia in pensiero, e la bellezza in strumento di risveglio. Non si tratta di fare propaganda, ma di dare voce all’indicibile, di creare spazi dove l’umano possa ancora riconoscersi.
Credo che l’Arte debba rimettere al centro la fragilità, la complessità, il dubbio. E se riesce a farlo con ironia — quella sottile, intelligente, che non banalizza ma disarma — allora diventa davvero potente. Perché l’ironia, in tempi tragici, è una forma di lucidità.
In sintesi: l’artista oggi deve essere “un artigiano del senso”, un costruttore di ponti tra ciò che è e ciò che potrebbe essere.
E se il mondo sembra aver smarrito il rispetto per la vita, l’Arte può ancora sussurrare ciò che non si osa dire, accendere visioni dove tutto sembra spento, e ricordarci — con grazia — che sentire è ancora possibile.
Quale è la tua visione dell’Arte?
L’Arte, per me, è una necessità elegante. Non è solo espressione, ma una forma di resistenza gentile contro l’omologazione, il rumore, la superficialità.
È il luogo dove il pensiero prende corpo, e il corpo — a volte — si fa pensiero. La vedo come una scenografia dell’invisibile: qualcosa che non si limita a rappresentare, ma che costruisce mondi, suggerisce possibilità, apre spiragli. L’Arte non deve spiegare, ma evocare. Non deve piacere a tutti, ma risuonare con qualcuno — anche solo per un istante.
Credo in un’arte che sappia essere colta ma accessibile, tecnica ma vibrante, profonda ma mai pretenziosa. Un’arte che non si prende troppo sul serio, ma che sa quanto è serio il suo compito.
In fondo, l’Arte è il modo più sofisticato che abbiamo per dire: “Guarda, c’è molto di più di quello che pensi. E forse, se ti fermi un attimo, lo puoi sentire.
Quale tecnica artistica ti offre maggiore soddisfazione e riesce ad esprimere la tua creatività?
La tecnica che mi offre maggiore soddisfazione è quella che “non si lascia incasellare”. Vengo dalla scenografia, dove ogni materiale può diventare protagonista e ogni superficie può trasformarsi in palcoscenico. Amo lavorare con spazi, volumi, luci e texture, perché lì la creatività non si limita a un supporto: si espande, respira, dialoga.
Mi affascina la contaminazione tra tecniche — pittura, installazione, progettazione, scrittura visiva — perché l’Arte, per me, è un organismo vivo, non una formula. La soddisfazione arriva quando la tecnica non è più un limite, ma un’estensione del pensiero.
E poi, diciamolo: c’è qualcosa di profondamente gratificante nel vedere un’idea prendere forma, magari dopo ore di lavoro certosino, e pensare “Ecco, ora parla da sola.” È lì che la tecnica diventa poesia.
In sintesi: non ho una tecnica preferita, ho una relazione appassionata con tutte quelle che mi permettono di tradurre il silenzio in visione. E ogni volta è una piccola rivoluzione.
Hai collaborazioni con gallerie d’arte o curatori esperti del settore?
Sì, collaboro — e ho collaborato — con diverse gallerie d’arte italiane, ma è soprattutto in Spagna che il mio lavoro ha trovato una risonanza particolare. Lì ho incontrato curatori e spazi espositivi capaci di accogliere la mia visione con intelligenza, sensibilità e una certa audacia mediterranea che non guasta mai.
Queste collaborazioni mi hanno permesso di esplorare contesti culturali diversi, di confrontarmi con sguardi critici e di portare il mio lavoro in luoghi dove l’Arte non è solo esposta, ma anche celebrata come esperienza viva. Credo molto nel dialogo con curatori esperti: un buon curatore è come un direttore d’orchestra invisibile, capace di armonizzare le intenzioni dell’artista con lo spazio, il pubblico e il tempo. E quando la sintonia è giusta, il risultato è più di una mostra — è una narrazione condivisa.
Naturalmente, sono sempre aperto a nuove collaborazioni, purché ci sia una visione comune e un pizzico di coraggio creativo. Perché l’Arte, come ogni viaggio, ha bisogno di buoni compagni.
Quali pensi siano i canali migliori per vendere le tue opere?
I canali migliori per vendere opere d’arte? Quelli dove l’Arte non viene trattata come “merce”, ma come “esperienza”. Certo, le gallerie restano fondamentali: offrono contesto, curatela, e quel rituale espositivo che dà respiro all’opera. Ma oggi, il panorama è più fluido — e anche più interessante.
Le piattaforme digitali, se ben curate, possono aprire dialoghi con collezionisti e appassionati in ogni angolo del mondo. Ma attenzione: non basta postare un’opera, serve narrazione, coerenza, visione. L’Arte non si vende, si racconta. E chi compra, in fondo, compra anche quel racconto.
Personalmente credo in un approccio ibrido: gallerie fisiche per il contatto diretto e l’esperienza sensoriale, canali online per la diffusione e il dialogo internazionale. E poi, il passaparola tra intenditori resta uno dei canali più affascinanti — un po’ segreto, un po’ magico.
In sintesi: l’opera trova il suo canale ideale quando incontra “lo sguardo giusto”, che sappia vedere oltre la superficie. E se quel canale è una galleria, un sito, o una conversazione tra amici… poco importa. L’importante è che l’Arte continui a viaggiare.
Hai nuove idee per quanto riguarda la tua produzione artistica?
Sempre. Le idee sono come ospiti inattesi: arrivano quando meno te lo aspetti, bussano con discrezione o irrompono con entusiasmo. Alcune si fanno subito spazio, altre restano in attesa, come schizzi su un taccuino che aspettano il loro momento.
In questo periodo sto esplorando nuove contaminazioni tra spazio e linguaggio, tra materia e memoria. Sto lavorando su progetti che uniscono installazione, parola e luce, cercando di creare ambienti che non si limitino a essere visti, ma che si possano abitare emotivamente.
Mi interessa molto il concetto di “fragilità strutturata”: opere che sembrano leggere, effimere, ma che nascondono una complessità tecnica e concettuale profonda. Un po’ come certi pensieri che sembrano semplici, finché non provi a spiegarli.
Naturalmente, non mancano le idee folli — quelle che fanno tremare il budget e sorridere l’anima. Alcune le realizzerò, altre resteranno sogni in attesa di un mecenate visionario. Ma in ogni caso, la produzione artistica per me è “un processo in divenire”, mai statico, sempre affamato di nuove forme.